Partigiani (con medaglia) raccontati dalle ragazze e dai ragazzi del Ccrr di San Giorgio di Piano

di Luca Bortolotti, Educatore del Consiglio comunale delle ragazze e dei ragazzi di San Giorgio di Piano

 

Il 29 gennaio del 2017, Luigi Varotti, Luigi Crescimbeni, Giuseppe Fraboni, Ivonne Poggi e Renata Francia sono stati premiati con la Medaglia della Liberazione dal Ministero della Difesa, per aver combattuto per la loro e la nostra libertà, per aver avuto il coraggio di vivere, di vincere l’ingiustizia contro il nemico nazifascista della Seconda guerra mondiale. Il riconoscimento è stato assegnato ai nostri cinque concittadini per il ruolo di partigiani, viventi alla data del 25 aprile 2015 e residenti nel Comune di San Giorgio di Piano, “indipendentemente dal luogo in cui hanno operato”, in occasione del 70° Anniversario della Liberazione.

La premiazione ha coinvolto il Consiglio comunale delle Ragazze e dei Ragazzi (Ccrr) di San Giorgio di Piano, che hanno intervistato i cinque premiati per conoscere meglio questi “eroi del quotidiano”. Insieme ai facilitatori del Ccrr, sono stati messi alla prova tutti insieme, i ragazzi, noi educatori, i nostri testimoni diretti e i loro famigliari che ci hanno restituito testimonianze della loro vita.

Sapevamo di doverci confrontare con un mondo fatto di ricordi, di emozioni e di giudizi. Sapevamo di avere dalla nostra parte l’affetto e l’energia che solo i giovani sanno mettere in campo nei momenti intensi e difficili. Sapevamo anche che la saggezza dei nostri anziani testimoni avrebbe difeso, protetto e abbracciato i sogni dei nostri giovani consiglieri. E così è stato.
Il ricordo è importante per la trasmissione dei valori fondanti la nostra società. L’incontro fra generazioni diverse ha fra gli obiettivi principali quello di favorire la solidarietà sociale e di generare una cittadinanza attiva in cui l’educazione intergenerazionale diventa un ponte tra ciò che siamo stati e la speranza di ciò che possiamo diventare.
La sera in cui intervistammo i nostri testimoni, i ragazzi erano come sempre energici ed euforici. Un gruppo sarebbe andato a casa del signor Fraboni, del signor Varotti e della moglie del signor Crescimbeni. Mentre gli altri ragazzi, invece, avrebbero accolto la signora Ivonne Poggi e i famigliari della signora Renata Francia nei locali della biblioteca.
Più ci avvicinavamo alle case, più i ragazzi cominciavano ad essere perplessi e a chiederci: “Ma perché siamo qua?”, “Cosa dobbiamo chiedere?”. Proponemmo loro di leggere le domande che avevamo preparato, ma soprattutto di mettersi in ascolto.

I nostri testimoni ci hanno accolto in casa con molta gentilezza, ci hanno fatto accomodare: tutti ci hanno offerto qualcosa da bere e da mangiare poi… hanno parlato! In alcuni casi bastò fare la prima domanda. Infatti, non riuscivi a fare la seconda, non ti azzardavi a farla poiché comunque si percepiva l’ondata di emozioni in piena di quei ricordi.
Il silenzio dei ragazzi durante l’ascolto fu assordante. Non mancarono né qualche lacrima, né qualche risata, ma sempre nel rispetto più assoluto per le esperienze di vita che ci venivano raccontate. Da quelle interviste sono nati cinque bellissimi racconti, che sono pubblicati di seguito in questo volume, realizzati dai ragazzi insieme ai facilitatori.
Gli elaborati riassumono le vite dei nostri concittadini partigiani del 1943-45, descrivendo quella straordinaria esperienza, attraverso gli occhi delle ragazze e dei ragazzi della Scuola media di San Giorgio del 2017. Le biografie sintetiche degli intervistati sono tratte da, Dizionario Biografico. Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), a cura di Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani e Nazario Sauro Onofri.

È un mestiere difficile l’educatore. Difficile, ma meraviglioso. È un mestiere in cui non “devi fare”, ma “devi essere”. Non si fa l’educatore, lo si è. Come facilitatori del Consiglio Comunale delle Ragazze e dei Ragazzi di San Giorgio di Piano, il cosiddetto Ccrr, siamo chiamati ad accompagnare i ragazzi alla scoperta del quotidiano, a far comprendere loro che, solo partecipando attivamente, è possibile migliorare le comunità in cui viviamo. A volte siamo costretti a “giocare” con loro sul filo del rasoio, camminando in un terreno minato fatto di provocazioni e suggestioni cercando di rimanere i più neutrali possibili sugli argomenti che si stanno trattando. Si cerca sempre di partire dall’ascolto dei ragazzi, di stimolare anche i più timidi a esprimere il loro parere o i più vivaci al rispetto delle idee di tutti. E spesso ciò è difficile. Sono i ragazzi a metterci in difficoltà. Sono gli argomenti che trattiamo a metterci in difficoltà. A volte, sono coloro che ci chiedono di trasmettere solo informazioni e nozioni, senza però chiedere loro “il permesso” o cosa ne pensano. È però emozionante e stimolante allo stesso tempo essere in difficoltà assieme ai ragazzi.

Renata Francia (1921-2016)

Renata Francia, “Tamara”, di Marino e Maria Bonora, nata il 15 gennaio 1921 ad Argelato. Licenza elementare. Operaia. Militò nel 4° battaglione Pinardi della 1ª Brigata Garibaldi “Irma Bandiera”, e operò a Corticella (Bologna). Fu incarcerata a Bologna dall’11 al 28 marzo 1944. Riconosciuta partigiana dal 1 aprile
1944 alla Liberazione.

Ringraziamo per la testimonianza la nipote Giulia e il figlio Stefano, che gentilmente ci hanno raccontato chi era Tamara, ovvero Francia Renata. Come tante altre donne faceva la staffetta, cioè consegnava messaggi, viveri e armi. Pur molto giovane, si era schierata da sempre dalla parte dei volontari della libertà. Anche il resto della sua famiglia aveva come obiettivo liberare l’Italia dalla dittatura. Mentre subivano i bombardamenti, il padre di Renata andava fuori a inveire contro i carnefici, rischiando di essere ucciso dalle bombe o da qualcuno che lo sentiva, per questo rischiava di essere accusato di far parte dei partigiani.
Il valore principale che ha ricevuto da quella esperienza era la libertà. Giulia ricorda il carattere della nonna, dicendo che anche nella vita era una gran combattente. Un altro suo valore sicuramente scaturito dall’esperienza di partigiana fu l’altruismo.

Sempre Giulia racconta che la nonna a volte quando vedeva la nostra nazione in difficoltà esortava dicendo: “Abbiamo lottato tanto, ma alla fine sembra che non abbiamo ottenuto niente”. Spesso le raccontava episodi di quel brutto periodo. Tra cui quando una volta, in occasione di un rastrellamento, siccome aveva con sé dei bigliettini, chiese di andare in bagno, e lì mangiò tutta la carta. I parenti, però, sospettano che Tamara a volte non volesse raccontare alcune vicende del passato, forse il dolore era ancora troppo.
Come ci viene raccontato, erano momenti difficilissimi. C’era chi tradiva passando da una parte all’altra. Insomma, i tempi non erano belli, ma Tamara e tanti altri coraggiosi giovani hanno lottato per lasciarci in eredità quella libertà che loro riuscirono ad assaporare solo da grandi.

Luigi Crescimbeni (1925 – 2015)

Luigi Crescimbeni, “Tre”, di Cesare e Iolanda Orsini, nato il 23 settembre 1925 a San Giorgio di Piano. Licenza di avviamento professionale. Operaio. Fu tra gli organizzatori del Fronte della gioventù e delle Squadre d’azione patriottica di San Giorgio di Piano. Operò nel Battaglione Tampellini della 2ª Brigata Garibaldi “Paolo”. Riconosciuto partigiano dal 1 novembre 1943 alla Liberazione.

Questa è la descrizione del nostro concittadino Luigi Crescimbeni che abbiamo trovato nel libro Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese. Quando abbiamo letto queste parole ci siamo interrogati, per comprendere le motivazioni che spingevano le persone di quel periodo a diventare partigiani e rischiare la propria vita. Per questo motivo abbiamo deciso di conoscerlo meglio, intervistando la moglie Luisa.
La signora Crescimbeni ci accoglie a casa sua, ascolta le nostre domande e poco dopo incomincia a raccontare a ruota libera: “C’era la guerra, c’era chi andava nei militari e chi nei partigiani. Molti andavano in prigione e venivano torturati. […] Chi abitava vicino all’edificio della Gioventù italiana del Littorio, la notte sentiva le urla dei torturati”.

Luigi era stato chiamato alle armi, doveva scegliere se combattere a favore della dittatura e dei fascisti o ribellarsi alla chiamata, vivere in latitanza sempre nascosto, ma credere negli ideali di libertà. Fu così che Luigi decise di diventare partigiano.
Racconta ancora la signora: “Erano tutti ragazzi della classe ’25. C’era chi scappava in montagna e chi rimaneva in zona, dove c’erano dei contadini che li ospitavano. Andavano alle riunioni e spesso scappavano, poiché bisognava stare attenti ai rastrellamenti. Alcune persone, mentre andavano a lavorare, venivano rastrellate per essere portate in Germania, alla gente sparivano i figli e non sapevano dove finivano, era un brutto periodo”.

Ci racconta come diverse volte Luigi rischiò la vita per quello in cui credeva. “Mio marito – racconta – lo volevano fucilare al mulino di Pieve, lo avevano già catturato, gli avevano già preso i documenti. Per fortuna intervenne un tedesco che lo lasciò andare. Una volta anche qui in piazza, sotto al campanile, lo dovevano fucilare, per fortuna passò un aereo a mitragliare e perciò tutti scapparono, se no veniva anche qui un bel disastro. Era proprio un brutto periodo”.
Ci racconta anche che chi veniva catturato spesso era obbligato a fare la spia, altrimenti veniva torturato o addirittura ucciso. Per fortuna, in alcuni casi, per la lealtà verso gli amici resisteva. “Un giorno, mentre andavamo a Cinquanta per portare una borsa piena di pistole ai partigiani, mio marito si accorse che su un camion c’era un personaggio che aveva lavorato con lui. Era uno che era stato catturato e faceva la spia, se no lo ammazzavano. Luigi mi disse che una volta arrivata alla Chiesa, dovevo correre per il sentiero e scappare. Per fortuna, quell’uomo disse che non ci conosceva. Erano brutti momenti, vi auguro di non passarne mai. di così brutti”.

Sì, la signora Crescimbeni insiste molto su questa frase e, guardandoci in faccia, la ripete spesso, come non capirla, dopo aver sentito i sui racconti? Diversi sono gli aneddoti che ci vengono raccontati dalla signora nella mezz’ora che passiamo a casa sua. Ci parla di un vagone che scoppiò, perché i fascisti gli sparavano contro per allenarsi al tiro al bersaglio, senza sapere che era pieno di munizioni. “Lo scoppio – aggiunge – fece
saltare tutti i vetri a San Giorgio”.

Vedendo che nel nostro gruppo ci sono tre ragazze, la signora ci parla anche della sua esperienza personale. “Anche per una donna era difficile. C’era anche il coprifuoco e fino alle 8 di mattina dovevi stare in casa, talvolta le ragazze le violentavano. Vennero in casa mia, erano undici guastatori, volevano mandare mio padre a lavorare in modo da rimanere soli con noi. Mio padre gli diede da bere, mentre mia sorella chiamò alcuni partigiani, tra cui mio marito, che cantarono la canzone “Marlene”, di Secondo Casadei, per distrarli e, tenendoli stretti, ci fecero scappare. Restammo due mesi nascoste per la paura in una casa di campagna. Ci sono stati dei momenti brutti, si viveva sempre con la paura”.

All’intervista è presente anche il figlio Paolo, che oggi è il sindaco di San Giorgio di Piano. Ci regala due fotografie. La prima, immortala il corteo che sfila per la via principale il giorno della Liberazione a San Giorgio mentre la seconda, lo stendardo del Battaglione Tampellini, ora appeso in municipio. Ci dice anche lui qualcosa su Luigi. “Mio padre – spiega Paolo Crescimbeni – lottava per quei beni che sono la democrazia e la libertà. Si riconosceva pienamente nei principi della prima parte della Costituzione. Infatti, quando era nell’Anpi si spese per la realizzazione del sentiero della Costituzione, presso il parco della Pace. Ci teneva che la gente conoscesse i principi della Costituzione, per cui avevano tanto lottato”.

Ivonne Poggi

Ivonne Poggi, “Marilen”, di Gaetano e Carolina Zucchini, nata il 29 luglio 1923 a San Giorgio di Piano. Studentessa dell’Istituto magistrale. Militò nel Battaglione Tampellini della 2ª Brigata Garibaldi “Paolo” e operò a San Giorgio di Piano. Riconosciuta partigiana dal 18 ottobre 1943 alla Liberazione.

Ivonne Poggi, che nella vita è stata insegnante delle elementari, si presenta dicendoci che non si diventa partigiani, ma probabilmente si nasce con qualcosa dentro per cui ti ritrovi quasi in modo scontato nelle file di qualche battaglione che avesse come obiettivo “salvare l’Italia e ottenere la libertà”. Insomma, per Marta era un diritto essere partigiana. Oltre a lei, nella sua famiglia, erano stati partigiani il marito, il papà e lo zio Ulisse, che più di una volta senza nessun motivo furono incarcerati presso il carcere di Bologna di San Giovanni in Monte.

Spesso portava biglietti con comunicazioni segrete, da un gruppo di partigiani all’altro. In un’occasione riuscì a salvare suo marito evitandogli il carcere. La premessa era che quando i fascisti o nazisti pensavano che tu fossi un partigiano, per la persona si aprivano subito le porte del carcere.
Ebbene, una notte entrarono in casa un gruppo di fascisti che stava cercando il marito di Marta, ma lei stava allattando la piccola Maria e con il suo corpo e quello della bambina riuscirono a nasconderlo appoggiandosi sopra.
Suo marito vestiva di nero, ma in modo molto coraggioso portava dei calzini rossi, questo era un segnale che non accettavi le regole che limitavano la tua libertà, perciò i fascisti ti vedevano come un nemico. L’ex maestra nel suo armadio non ha un abito nero, ci dice che solo le sue scarpe hanno quel colore, perché a 94 anni non può permettersi colori sgargianti.
Sempre onesta e sincera tanto che a sua figlia diceva che doveva dire sempre la verità anche a costo di rischiare la vita, come adesso vi racconteremo.
La casa della signora Poggi ospitava in modo fisso un gruppo di tedeschi, i quali avevano requisito alcune stanze. In un angolo della casa, Marta e famiglia avevano ricavato un buco, un angusto spazio di cui nascondevano l’entrata, ma dove all’interno però potevano andare ad ascoltare la radio.

Un mattino lei chiese alla figlia dove fosse il papà, lei in presenza di un soldato tedesco rispose con il linguaggio di una piccola di tre anni, “Buco papà radio”, la maestra fulminò la piccola Maria rimproverandola. Il soldato tedesco capì che c’era qualcosa che non andava, ma per fortuna non afferrò. Il papà stava ascoltando la radio di nascosto, e ciò era già sufficiente per essere fucilato. La bambina piangendo rispose alla mamma dicendo: “Ma tu mi hai sempre insegnato a dire la verità”. “Ecco cosa mancava a noi veramente: era la libertà – dice Marta – e noi partigiani abbiamo combattuto per riaverla”.

Luigi Varotti (1923 – 2018)

Luigi Varotti, “Leo”, di Giuseppe e Augusta Tabanelli, nato il 3 settembre del 1923 a San Giorgio di Piano. Licenza di avviamento professionale. Operaio. Militò nel battaglione Tampellini della 2ª Brigata Garibaldi “Paolo”. Riconosciuto partigiano con il grado di tenente dal 20 marzo del 1944 alla Liberazione.

Dietro queste poche parole, ci sono storie di vite reale e aneddoti che ci hanno fatto capire solo parte della realtà dei fatti raccontati. Durante la nostra intervista il signor Varotti è stato felice di “vedere tutti questi ragazzi”. Insieme alla moglie Bruna, sorella di un partigiano, Enzo Ballandi (morto all’inizio degli anni Ottanta) e lei stessa giovane staffetta partigiana, ci raccontano alcune storie di vita quotidiana di quel periodo.

Ci dice che lui entrò a far parte dei partigiani non perché “fuggiva” da una chiamata alle armi, ma per libera scelta. Avendo interrotto gli studi (li riprenderà poi nel ’46), era diventato tornitore specializzato per un’industria di Bologna, che lavorava per l’aeronautica. Questo fece posticipare di un anno la sua chiamata alle armi. Nel novembre del 1943 avrebbe dovuto partire, “non c’erano santi”, ma nel frattempo ci fu l’armistizio.

Divenne partigiano in modo quasi naturale, aveva sempre trovato un po’ ridicole le adunate, il premilitare e la retorica del partito fascista. Soprattutto non gli sembrava normale l’idea che il Paese fosse di fatto occupato dai tedeschi che la facevano da padroni.
Durante la guerra continua a lavorare nella fabbrica elettromeccanica, ma a causa dei bombardamenti, la fabbrica, che era vicino a porta Lame, si trasferisce a Farneto di San Lazzaro di Savena (Bo). Da San Giorgio sono quasi 40 chilometri da fare tutti i giorni in bicicletta, e le strade “non erano quelle di adesso”, precisa il signor Varotti.

Poi continua: “Durante gli allarmi si trovava rifugio nelle grotte. I commissari politici del Comitato di liberazione nazionale ci avevano ordinato di produrre il meno possibile. Noi facevamo componenti elettrici usati in macchinari militari. Non era difficile trovare scuse, lamentando rifornimenti di materiale che non arrivavano o incolpando le incursioni aeree che costringevano a interrompere il lavoro”.

Nel suo quotidiano si inseriva la lotta che compiva come partigiano. Ci accenna alle riunioni segrete che si svolgevano nella soffitta di casa sua e come, a volte, vi venivano nascoste anche dalle armi. Poi interviene anche la signora Bruna, che ci racconta come anche nel suo granaio nascondevano le armi, ma il signor Varotti le dice che è lui che deve raccontare, che i ragazzi sono lì per lui.
Questo ci strappa una risata. Varotti ricorda di quando durante il coprifuoco uscivano per fare propaganda, distribuendo volantini o facendo scritte sui muri. Una volta un suo compagno, tanta era la paura che aveva, con la vernice scrisse su un muro, sotto il portico “Viva i Rartigani”.

“Quando andavamo a fare delle scritte sui muri che inneggiavano ai partigiani, bisognava stare attenti perché c’era il coprifuoco e se ti beccavano, ti mettevano in prigione o ti uccidevano”.
Si prosegue con il racconto di quando rubarono una pistola a un militare senza essere presi. Gli facciamo vedere una foto che immortala il giorno della Liberazione di San Giorgio, dove i partigiani sfilano per il Paese. Si avvicina, la guarda e con orgoglio dice: “C’ero anche io quel giorno. Prima del corteo avevo fatto un discorso pubblico dalla balaustra che c’è al piano superiore della Porta Ferrara”.

Siamo stati un’ora e mezza in giro per San Giorgio a sentire i “crudi” racconti di vita di quel periodo e ci risolleva vedere come, nonostante le esperienze vissute, queste persone siano state degli “eroi” semplicemente nel vivere quotidiano. Noi possiamo solo immaginare che quel discorso parlasse di pace e di libertà e ci rendiamo conto che, anche la vita più bella, non si può definire tale senza ideali che la guidino.

Giuseppe Fraboni

Giuseppe Fraboni, nome di battaglia “Sacar”, da Luigi e Ines Tartarini, nato il 13 aprile del 1926 a Bentivoglio, studente. Militò nel battaglione Cirillo della 4ª Brigata Venturoli Garibaldi e operò a Bentivoglio. Ferito. Riconosciuto partigiano dal 14 agosto 1944 alla Liberazione.

Il signor Fraboni ci ospita a casa sua insieme al nipote. Ci fa accomodare, legge le nostre domande e incomincia a raccontare.
“Diventai partigiano per necessità”, dice il signor Giuseppe, che poi ci narra come ricevette la chiamata alle armi da parte della Repubblica sociale di Salò. Doveva scegliere se andare a morire quasi certamente in guerra, o scappare ed essere renitente alla leva. “Era solo nella testa di alcuni esaltati – aggiunge – l’idea che questa guerra si potesse ancora vincere”. Poi spiega che era chiaro anche cosa succedeva a chi non andava nei militari: c’erano i cartelli per le strade che spiegavano che i renitenti alla leva sarebbero stati giustiziati sul luogo di cattura: “Scelsi di scappare anche perché non volevo partecipare alle porcherie che facevano”.

Andò a rifugiarsi in una casa disabitata a Bologna, e dopo qualche tempo arrivò anche un sangiorgese.
“Fui quasi l’unico a essere ‘chiamato alle armi’ a Castagnolino di Bentivoglio, perché della classe ’26 chiamavano solo quelli del primo semestre”. Avvisato da altri partigiani che i fascisti stavano arrivando, scappa una sera da Bologna.

Fortuna vuole che non incontri nessuno, o almeno, nessuno con la camicia nera. Poi si rintana in una soffitta a Castagnolino: “Veniva solo mio fratello più piccolo a portarmi da mangiare e io lanciavo dei pezzi di pane alle topacce che c’erano per tenerle lontane […] ormai le chiamavo per nome”, dice sorridendo. Rimane in quella soffitta, fino a quando il fratello più piccolo gli dice che al bar di Castagnolino viene sempre un certo Franco, anche lui partigiano, che lavorava per la Todt, ovvero quel gruppo di persone che dopo i bombardanti andavano ad aggiustare le strade e la ferrovia.

“Per me significava mettermi nelle mani dei tedeschi, ma non ce la facevo più a stare in quella soffitta.
Ci andai e fu la mia salvezza perché i tedeschi li proteggevano quelli della Todt, al suo interno c’erano anche tanti partigiani di San Giorgio di Piano”.
Lui aveva studiato un po’ il tedesco e parlava con loro. A scuola prima insegnavano il francese, poi, dopo l’alleanza con la Germania, solo il tedesco. “Mi è servito anche più in là negli anni”.
Intanto continuavano le attività di partigiani. “Io ero nel Battaglione Venturoli di Castagnolino, che era diviso in due gruppi, l’altro si trovava a Castel Maggiore. Ogni paese, anche piccolo, aveva il suo capo che riceveva gli ordini e ci diceva cosa era necessario fare”.

Poi ci racconta come in quella zona non successero cose eclatanti, si andava la notte a nascondere o a recuperare delle armi, sempre passando per la campagna, perché c’era il coprifuoco. La cosa più grave e più tragica avvenne proprio l’ultimo giorno di guerra. “Noi – spiega Fraboni – non sapevamo che Bologna fosse già stata liberata e quella notte fecero delle porcherie immani”.
La mattina presto del giorno successivo, il loro capo li riunì perché sapeva che presto sarebbero arrivati a prendere il loro amico, e con lui tanti altri.
“A Castagnolino, al quadrivio, da cui era obbligatorio passare, c’era una scuola. Ci chiudemmo lì, dentro pronti all’arrivo dei tedeschi. Eravamo in pochi e pensavamo che saremmo morti sicuramente, non contavamo troppo sull’arrivo di rinforzi”. La paura fino a quando, dalle finestre, videro un polverone in lontananza: era un carro armato.

Ci racconta come i carri armati dei tedeschi erano verdi, ma quello che stava arrivando sembrava di un altro colore. Con il terrore sul viso, ma la speranza nel cuore aspettarono, fino a quando ebbero la certezza che il carro armato fosse di un color nocciola.
“Lo immaginate che sospiro che abbiamo fatto, da morti certi siamo tornati in vita”. A quel punto uscirono, tranquilli, e, assieme agli inglesi, andarono nelle case a stanare i tedeschi che ancora si nascondevano. Giuseppe seguì una donna che diceva di avere un tedesco nel granaio, lo trovò e lo portò sul carro armato. “Lo trattarono bene, da prigioniero vero, non come facevano loro con noi”. Incontrarono anche altri due tedeschi
armati, che stavano rubando una mucca a un contadino. Gli intimarono l’alt, ma un soldato sparò comunque. Perciò dovettero sparare anche loro. “Anche la povera mucca rimase ferita”, ci racconta.

Anche nella tragedia e nel dolore che avevano passato in quegli anni, queste persone ci insegnano come non debba mai venire a mancare l’umanità e il rispetto per ogni essere vivente.