Testimonianza di Luigi Lipparini
di Anna Fini

 

Come Anpi San Giorgio abbiamo voluto inserire in questo libro un’intervista a Luigi Lipparini perché, anche se al tempo era bambino, di quel periodo è testimone, e come tale ci riporta il suo ricordo.
Da molti anni, in occasione delle Celebrazioni del 25 aprile e nelle visite ai cippi, in modo particolare in quello della Scodellara, Luigi Lipparini ci ricorda quanto lì è accaduto, con un racconto coinvolgente che produce il desiderio di saperne di più. Un racconto da cui traspira una grande umanità, tanto importante in questo nostro tempo.

 

La famiglia di Enzo Pirotti, composta dai genitori e da 7 figli, 4 femmine e 3 maschi, abitava in quello che era, di fatto, il casello ferroviario di via Santa Maria in Duno, a cinquecento metri dalla casa colonica nella quale vivevo con la mia famiglia.
Nel 1944, a causa di uno dei tanti bombardamenti che prendevano di mira la linea ferroviaria, la casa dei Pirotti venne parzialmente distrutta, e la famiglia fu costretta a trasferirsi prima dai Brunelli e successivamente presso di noi. La mia famiglia, con a capo mio zio Adelmo Lipparini, già numerosa, si strinse un po’ e la nostra casa colonica giunse a ospitare 32 persone, alle quali doveva aggiungersi un gruppetto di militari tedeschi delle SS, con il loro comando, che avevano requisito due stanze, stabilendovi sia l’ufficio che l’abitazione.

I rapporti con i militari presenti nella casa non causarono particolari problemi: loro si comportavano bene e noi, adulti e bambini, cercavamo di agire in modo da non destare sospetti, utilizzando anche segnali tutti nostri per comunicare e sostenerci, anche nelle situazioni più delicate. Ricordo però che una notte i partigiani tagliarono i cavi del telefono nei pressi della nostra casa, e i tedeschi si presentarono al capo famiglia dicendo che se la cosa fosse successa nuovamente avrebbero “bruciato le case, kaput (ucciso) donne e bambini e trasferiti gli uomini in Germania”. Dopo quell’episodio, lo zio Adelmo ne parlò con Enzo e il fatto non si ripeté più.

Io allora avevo 8 anni e, siccome ero troppo piccolo per andare a lavorare nei campi come tutti gli altri, rimanevo a casa con Enzo che faceva il lavoro di calzolaio, utilizzando un banchetto costruito in casa Lipparini dopo che il suo era stato distrutto durante il bombardamento. Ricordo che, dopo avere eseguito tutti gli incarichi che mi venivano affidati, mi mettevo accanto a lui e lo guardavo lavorare. Sulla linea ferroviaria vicino a noi c’era uno scambio dei binari, e i treni spesso si dovevano fermare per dare ad altri treni tedeschi la precedenza. In queste occasioni la famiglia del casellante poteva parlare con il personale viaggiante e ricevere informazioni senza destare particolari sospetti. In quei tempi non era molto facile avere notizie aggiornate e sicure, perché anche se si riusciva a ricevere le trasmissioni di Radio Londra e Radio Monte Ceneri (una emittente svizzera) i tedeschi cercavano di disturbarle lanciando dagli aerei fasci di carta stagnola che ne impedivano un buon ascolto. Quando i treni si fermavano, il personale viaggiante poteva scendere e muoversi un po’ e, se non osservati, lasciare in posizione sicura qualche messaggio. Enzo, infatti, mi chiedeva di tenerli d’occhio e riferirgli dove andavano, così che successivamente potesse fare uno stacco di nascosto dal lavoro e andare dove gli avevo segnalato, per recuperare eventuali comunicazioni clandestine. Queste operazioni si svolgevano con grande attenzione, in quanto il casello ferroviario bombardato era stato coperto da un telone e nessuno poteva avvicinarsi.

Un episodio del quale conservo un ricordo particolare avvenne una sera d’estate del 1944, alle 19,30, dopo il coprifuoco, quando ormai non si poteva più circolare per le strade. Avendo visto nel cortile una persona estranea alla nostra famiglia ed essendo costretti a riferirlo ai tedeschi, demmo a questo sconosciuto il tempo di scappare e solo dopo lo segnalammo indicando comunque una direzione diversa da quella che aveva imboccato. A distanza di tempo ho messo a fuoco un ulteriore ricordo e ho compreso il significato del gesto che Enzo aveva fatto poco dopo uscendo di casa: si era infatti un po’ appartato fingendo di fare un bisogno e aveva raccolto qualcosa dalla pianta di oleandro, proprio dalla posizione dove avevamo visto la persona sconosciuta. I tedeschi, a quel punto, ci ordinarono di allinearci tutti contro il muro, mentre loro con la pistola in mano cercavano di comprendere la situazione.

Dopo il 25 luglio del 1943 e la nascita della Repubblica di Salò i tempi si fecero più duri: repubblichini, Gestapo e spie controllavano tutto e tutti, compresa la mia famiglia, anche perché mio cugino Amedeo era stato segretario della Lega Coloni, Capo Lega e, proprio per questa sua attività, ucciso dai fascisti nel 1922 a Santa Maria in Duno. Mia madre mi aveva spiegato che quando vedevo arrivare degli estranei dovevo girare la manovella del pozzo, in modo che il cigolio caratteristico che essa produceva funzionasse da segnale convenuto, perché un adulto della casa intervenisse per evitare che si disturbassero i soldati tedeschi.

Rammento che un giorno vidi arrivare un gruppo di persone che comprendeva sia un tedesco, riconoscibile dallo stemma con l’aquila, che un delatore italiano, e come mi avevano suggerito mi misi a girare la manovella del pozzo. Mia madre arrivò di corsa e, comprendendo la situazione, chiese di lavarsi con l’acqua del pozzo, prendendo gli asciugamani e contemporaneamente parlando con i nuovi arrivati, in modo da far si che si mettessero di spalle alla stalla e permettendo così a due uomini che vi erano rifugiati di scappare. Io, allora, essendo ancora piccolo, non venivo informato di tutto quanto accadeva, tuttavia riconobbi Paolo Brunetti, un partigiano amico di famiglia che era stato in trincea sull’Adamello con mio padre e che venne poi ucciso il 12 dicembre 1944 a Cinquanta, dove è ricordato insieme alle altre vittime nel cippo marmoreo.
Questo e altri episodi potrebbero sembrare agli occhi dei giovani di oggi e, più in generale, di chi non ha vissuto quei tempi, come piccole cose, ma per noi hanno rappresentato momenti gravi e difficili pensando alle conseguenze alle quali saremmo andati incontro se ci avessero scoperto.

La mattina del 22 aprile 1945 iniziava a circolare a San Giorgio la notizia che Bologna fosse già stata liberata, e si comprendeva che i tedeschi stavano smobilitando anche dal nostro Comune. Cominciarono a suonare le campane del nostro campanile come segnale di liberazione ed Enzo partì dicendo a suo padre Amedeo, che cercava di trattenerlo: “babbo, bisogna che vada”. Fu l’ultima volta che lo vedemmo vivo, perché
si recò in piazza a San Giorgio e da lì organizzò la battuta della Scodellara, dove poi perse la vita.
Furono momenti concitati: nella nostra casa di via Santa Maria in Duno i tedeschi videro arrivare due autoblindo alleate, sicuramente dirette alla nostra casa, dove si era insediato il comando tedesco. Ci ordinarono di andare nel rifugio mentre loro si chiusero in cantina (locale sicuro come un bunker) che si trovava all’interno della casa, dove era rimasta anche mia madre e un mio cugino.

Gli alleati arrivarono in pochi minuti nei pressi della nostra abitazione, si fermarono sulla strada puntando un cannone sulla strada e uno sulla stalla e spararono qualche colpo di avvertimento. Mia madre e mio cugino uscirono di corsa dalla casa per andare verso il rifugio, mentre il capo famiglia Anselmo andò ad avvisare gli alleati che nella stalla c’era un rifugio con solo i civili mentre nella cantina in casa erano nascosti i tedeschi.
Forse gli alleati avrebbero anche potuto demolire la casa, ma fortunatamente i tedeschi si arresero prima. Ricordo che il più giovane, un caporale o un tenente, rivolgendosi a mia madre le disse “mamma per me guerra finita”.

A casa nostra si fece festa, ma non sapevamo che proprio in quel momento stava morendo Enzo. La triste notizia ci arrivò verso le 11, portata da Sabadini. Amedeo, il padre di Enzo, corse al cimitero dove il figlio era già stato portato col carro funebre e lo riconobbe dagli scarponi che si era fatto lui stesso. Enzo, insieme a Franco Lentini, era andato in perlustrazione nella zona a ovest di San Giorgio, chiamata Scodellara, dove i tedeschi avevano tenuto un grande accasermamento. Quella collocazione era sufficientemente lontana dalla ferrovia, presa di mira dai bombardamenti alleati, e l’aperta campagna consentiva una vista in tutte le direzioni, con il canale Riolo che faceva da barriera e trincea naturale, e in vicinanza aveva solo due case coloniche (in una di queste era dislocata anche la contraerea).

Le truppe tedesche erano già scappate ed erano rimasti pochi militari, forse sbandati o forse una retroguardia, che al riparo nella casa colonica lasciarono avanzare i due partigiani sino al macero per poi aprire il fuoco, uccidendoli a colpo sicuro. A sparatoria finita, un tedesco andò verso il macero dove era Enzo ferito a morte, prendendogli la carta d’identità e la pistola; fece poi vedere la carta d’identità ai contadini vicini, che dissero di non riconoscere la persona raffigurata. Ricordo che il pranzo di quel 22 aprile fu molto triste. La mamma di Enzo nel pomeriggio andò al cimitero insieme a mia madre, per lavare e ricomporre il figlio e dopo fu lei a far coraggio agli altri. Avendolo visto che pareva dormisse, si era rassegnata e il dolore era diventato “più umano”.

Dalla settimana successiva, iniziarono i lavori per la sistemazione della casa Pirotti, il casello ferroviario, dove nel giro di breve tempo la famiglia di Enzo ritornò a vivere. Amedeo Pirotti voleva ricompensare e pagare in qualche modo l’ospitalità ricevuta, ma il nostro capofamiglia Anselmo Lipparini non volle, e gli disse: “tu non devi dare niente a nessuno. Noi siamo stati fortunati, ci hanno portato via tutto ma siamo salvi, tu no”.
A ricordarci di Enzo nel tempo, oltre ai fiori che Bassi e Veronesi hanno lasciato sul cippo per i 70 anni, è rimasto il suo banco da lavoro, ospitato da qualche anno dalla casa di mio cugino, sul quale ogni 25 aprile si depone un fiore, in ricordo di Enzo e della Liberazione.