Il Dottor Colombari conclude il suo servizio: una vita da medico di famiglia a San Giorgio

 

Il 31 agosto scorso Giorgio Colombari, storico medico di medicina generale di San Giorgio di Piano, ha concluso il suo servizio. Lo abbiamo incontrato nel suo ambulatorio, raccogliendo ricordi e riflessioni sul suo percorso professionale e umano nel nostro paese.

 

“Sono nato a San Giorgio, nel giorno di San Giorgio e mi chiamo Giorgio: il mio legame con il paese è scritto da quando sono venuto al mondo, nel 1955 in Piazza Trento-Trieste.
Dopo la laurea, nel 1983 – sono passati quarant’anni – ho fatto la guardia medica, il militare, poi un anno come medico di medicina generale a Bentivoglio, e dal 1993 ho esercitato sia a Bentivoglio che a San Giorgio. Per trent’anni ho sempre svolto la mia professione in entrambi i paesi, chiesi io di avere il doppio ambulatorio perché dopo l’esperienza a Bentivoglio tanti pazienti preferivano proseguire con me. Oggi i giovani medici raramente tengono il doppio ambulatorio, perché la gestione è più impegnativa.
In questi anni ho sempre avuto una media di 1.600 pazienti e il rapporto con i colleghi medici è sempre stato buono. Lavorare sempre qui mi è piaciuto, anche se avere una conoscenza personale con i pazienti – cosa che in un altro luogo non sarebbe potuta succedere – porta a confrontarsi più spesso e fuori dal contesto lavorativo con richieste e domande.

In questi quarant’anni la professione è cambiata molto, un tempo il medico di medicina generale era quello che io ritengo essere ancora adesso, cioè il medico di famiglia. Sono stato tutor di preparazione e ho seguito tanti tirocinanti, almeno venti, e tutti si meravigliavano del fatto che io conoscessi tutti i pazienti, a volte mi bastava guardare in faccia le persone per capire se c’era qualcosa che non andava. Una volta il medico del paese conosceva tutti, adesso i medici che vengono da fuori non riescono a entrare allo stesso modo in questo tessuto di relazioni. In passato il medico di famiglia era un po’ un tuttofare, non si limitava a indicare uno specialista in base alla diagnosi che si faceva.
La medicina fatta con il computer e il telefono ha un approccio difensivo, con una presa in carico di responsabilità minore rispetto al passato, quando si cercava di più di curare il paziente sul posto. Si tratta di due modi molto diversi di esercitare la professione. La medicina clinica, che credo di aver condotto con onore in questi anni, oggi nella pratica è molto diminuita.
Il supporto crescente della tecnologia è importante e sicuramente avrà sviluppi interessanti, ad esempio poter svolgere esami in ambulatorio, come un elettrocardiogramma o ecografie. Questo lavoro supplementare, però, deve essere accompagnato da un riconoscimento, anche perché si tratta di responsabilità in più e queste prestazioni devono essere contrattualizzate.
Negli anni la medicina si è evoluta, e specialmente certe branche hanno fatto passi da gigante, ma lo stesso non è successo nella dermatologia, che è la mia specializzazione, dove è ancora fondamentale la diagnostica visiva.
A cambiare nel tempo è stato anche il rapporto che i pazienti tengono con il medico, soprattutto i giovani, che spesso dopo una visita specialistica si limitano a chiedere ricette di farmaci, e questo è un po’ frustrante. Dopo l’avvento di Internet, poi, in tanti pensano che leggendo quello che si trova online si possa comprendere una patologia e risolvere i problemi, ma non è così: affidarsi alla rete senza conoscenze ed esperienza professionale è sbagliato e potenzialmente pericoloso.

Tra i miei ricordi ce n’è purtroppo uno molto triste legato alla pandemia: la perdita del caro collega Marcello Natali. Lui morì nelle prime fasi, quando il Covid-19 era praticamente sconosciuto e non eravamo consci di quello che stavamo affrontando. Quando arrivò la notizia della sua morte restammo tutti molto turbati, lui era più giovane di me di dieci anni e avevamo collaborato, avevo conosciuto bene suo padre Mario, anche lui medico di famiglia.
Il mio legame con il paese prosegue anche quando mi capita di andare al cimitero, e guardandomi intorno ritrovo amici e molti di quelli che furono miei pazienti. Il ricordo di chi se n’è andato ti segna, anche dopo tanti anni di esperienza.

Il primo giorno di pensione è stato come il primo giorno di vacanza dopo l’ultimo giorno di scuola. Nel prossimo futuro, oltre a proseguire la professione di dermatologo, vorrei tornare in montagna, dove in passato sono stato tante volte e in tutte le stagioni, anche fuori dai confini europei. Per cinque anni ho fatto parte del Soccorso Alpino.
Vorrei anche tornare in Africa, meta prediletta dei miei viaggi di piacere. Ho sempre amato viaggiare e ho portato avanti questa passione per tutta la vita, pur avendo iniziato a volare tardi. Ho visto tanti posti, alcuni anche molto strani, dalla Groenlandia al Bangladesh, dove sono stato per le nozze di un amico. Quella volta, però, ho dovuto lavorare: si era sparsa la voce che ero un medico e davanti alla mia porta era costante la fila di persone che volevano farsi visitare… In Africa non ho mai svolto interventi dal punto di vista medico, ma non escludo di farne.

Il bilancio del mio lavoro è sicuramente positivo, perché nonostante il mio carattere – che non è facile – penso di avere lasciato un segno nel paese, e mi sto accorgendo adesso che la gente mi ha voluto e mi vuole bene. Ho avuto come pazienti più generazioni di sangiorgesi e sto ricevendo tanti messaggi e attestati di gratitudine, che mi fanno piacere.
I colleghi che vengono da altre realtà non possono entrare nel cuore della comunità come è stato per me, mentre io mi sono sempre sentito sangiorgese tra i sangiorgesi: un “castlàn”, come si diceva una volta. Sono legato al mio paese e tale rimango”.

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